L’ultimo documentario realizzato da Paolo Carboni, firmato con Carmina Conte, è Le spose del Grand Hornu, che ci ricorda quando anche gli italiani (soprattutto provenienti dal meridione e dalla Sardegna) emigravano nell’Europa del nord in cerca di una situazione alternativa alla miseria nera seguita ai disastri della seconda guerra mondiale, ma anche a chi continuava a lavorare nel proprio paese in situazioni drammatiche.

Il film di Carboni, poi, evoca un tratto di tragica storia economica europea. Infatti, dopo la fine del conflitto, il Belgio, nelle cui miniere la manodopera non era sufficiente, firmò un protocollo di intesa con il nostro paese per mandare a lavorare nel suo sottosuolo almeno 50.000 nostri connazionali (dovevano essere in buona salute e non superare i 35 anni); in cambio l’Italia avrebbe ricevuto alcuni milioni di tonnellate di carbone a prezzo preferenziale, quella materia prima che sarebbe servita a far ripartire un paese stremato e impoverito.

Nelle interviste realizzate per il documentario, qualcuno dice “hanno venduto i nostri mariti per un vagone di carbone.” E, in effetti, non si può dar torto a questa affermazione, leggendo i manifesti pubblicitari invitanti a trasferirsi per lavorare “nel sottosuolo belga” (la parola miniera probabilmente poteva spaventare qualcuno) con una casa pagata, il viaggio e le visite mediche a Milano gratis, un buon stipendio, persino con giorni di ferie e contributi assicurati. Oggi si parlerebbe di fake news.

Infatti, alcune delle donne, le quali con lucidità si raccontano nel film, mettono in evidenza come la casa promessa non fosse altro che una baracca, un tempo utilizzata per ospitare i prigionieri di guerra, senza suppellettili, con un letto e una vecchia stufa, luogo prediletto dai topi e dall’umidità. Una vera presa in giro. Ma stiamo parlando di una generazione di ferro.

Alcune vedove, infatti, narrano come, dopo i primi momenti di sconforto, riuscirono a trovare soluzioni migliori, grazie anche ai “franchi” guadagnati dai mariti.

Ecco, i mariti. Sono quasi tutti morti gli uomini delle spose del Grand Hornu: la silicosi, i tumori, le malattie respiratorie di ogni tipo, non gli hanno permesso di godersi qualche anno di riposo, magari per ritornare in Sardegna, terra di cui, comunque, si conservava la lingua, ultimo legame di radici lontane.

Parlano, dunque, nel documentario soprattutto le donne, fiere, coraggiose, che hanno diviso con il loro compagno una vita veramente difficile.

Carboni, supportato dal montaggio sicuro di Marco Antonio Pani, alterna le loro voci, così diverse e così simili. Le unisce la narrazione del lavoro del marito: “Le miniere belghe erano troppo brutte e cattive”; “Quando tornava ringraziavo il Signore”; “Come finivano il turno erano pallidi, sfiniti, distrutti”; “Mio marito faceva solo il turno di notte. Dormiva di giorno, usciva al buio”, “A volte era costretto a strisciare nel fango a pancia in giù come un serpente”.

In varie scene, i racconti vengono sfumati in fotogrammi di repertorio, alquanto impressionanti, dove questi dannati della terra faticano con protezioni ridicole, quasi nudi, come leggiamo nei racconti verghiani, stretti negli ascensori fatiscenti che li sprofondano nell’inferno della miniera. Aiuta l’empatia dello spettatore la musica ben temperata di Stefano Guzzetti.

Le spose, vedove ormai, del Grand Hornu, ricordano anche la situazione di emarginazione, le difficoltà di vivere in un paese straniero, fortemente razzista. Una evoca una piccola gita con altre amiche sarde ad una festa di paese, in cui, sedute a un tavolino, vengono cacciate via perchè italiane (“ci chiamavano macheronì, non ci potevano sopportare”) un’altra il vergognoso cartello incollato nei bar: “Nè cani, nè italiani”. Tutte dicono degli sforzi per imparare una lingua sconosciuta e qualche episodio di solidarietà dei commercianti (“il macellaio mi diceva con simpatia che ero una piccola italiana di poche parole, ma furba perchè conoscevo il valore delle monete”), mentre i mariti non rivelavano le vere condizioni in cui operavano, per un ritegno, che oggi considereremo eccessivo.

Alcune ricordano anche gli scioperi (“ce ne fu uno di 70 giorni, in cui i minatori furono tutti solidali: italiani, polacchi, greci, belgi e si andò a Bruxelles per protestare e si ottenne qualche diritto in più, oltre ad un aumento”) e i vigilantes pronti a agire contro i manifestanti.

Queste famiglie riuscivano a mettere da parte i soldi, qualcuno si potè anche comprare una casetta in Sardegna, altri si stabilirono definitivamente in Belgio (“non mi sentii di tornare nell’isola, dove ancora la miseria era tanta, non potevo tornare indietro”). Tanti riposano nei cimiteri valloni.

Le spose del Grand Hornu si completa in una seconda parte, dedicata alle vedove dei minatori di Carbonia, quelli che non vollero partire (“dissi a mio marito che, miniera per miniera, tanto valeva rimanere qui”), ma come dice una donna “anche a Carbonia, in miniera, il lavoro era pericoloso, si moriva”. Così, vengono enumerati i decessi bianchi lungo tutta la “vita” delle miniere del Sulcis, una piccola strage.

Inoltre, l’uso del regista di alcune sequenza dell’Ultimo pugno di terra (1965), il capolavoro, lodato anche da Cesare Zavattini, di Fiorenzo Serra, ci aiuta a compiere un ennesimo percorso nel passato. Vediamo come era Carbonia fino agli anni sessanta, i suoi giovani, i tantissimi minatori che lavoravano nel sottosuolo del Sulcis, anche in questo caso, spesso, senza le dovute cautele e protezioni.

A concludere il documentario – meritevole per la sua cura nella forma, la sua struttura solo apparentemente semplice, così attuale pur parlando di tempi lontani, di una circolazione più ampia -, è una delle spose del Grand Hornu, la quale, nel sardo mai dimenticato, ricorda ai giovani di non rimuovere il passato e gli uomini che si sono sacrificati per un mondo migliore. Non solo per i loro figli, per tutti.

di ELISABETTA RANDACCIO