Venerdì 7 dicembre 2018, Ore 21 - Associazione Cuncordu di Gattinara - Ingresso libero

"Il ritratto di Suor Giuseppina Demuro è quello di una religiosa non comune, dotata di audace carisma, di coraggio intrepido, e di volontà incrollabile. Figlia della Carità Vincenziana, passerà alla storia come la donna sarda che salvò antifascisti, ebrei e partigiani rinchiusi nel carcere “Le Nuove" di Torino."

Nata in Ogliastra, ma per quarant'anni al servizio del bene nelle carceri di Torino anche durante e dopo la seconda guerra mondiale. Per dare conforto e assistenza. E per salvare vite umane. Moltissimi ebrei e partigiani. Ma, una volta finito il conflitto, anche fascisti.
Per questo, in vita, ha ottenuto la medaglia d'oro al merito per la redenzione sociale.

Rosina Demuru, questo il suo nome prima di prendere i voti, nasce a Lanusei, in Ogliastra, nel 1903. A soli 19 anni entra nella Compagnia delle Figlie della Carità di San Vincenzo per essere quindi inviata, nel gennaio 1926, nelle carceri Le Nuove di Torino. Per sedici anni offre il suo servizio alle detenute, poi il 23 maggio 1942 assume la direzione della Sezione Femminile - la chiamavano comandante - e della comunità delle suore. "Ci sono giunte ampie testimonianze - ricorda Loddo - da parte dei partigiani e delle donne ebree racchiuse alle Nuove, tutte concordi nel rilevare come la sua condotta abbia salvato dai campi di concentramento e dalla morte decine di ebrei con tecniche geniali, la cui messa in atto, se scoperta, avrebbe messo seriamente a rischio la sua propria esistenza". Come? Spesso mescolando gli ebrei tra le detenute o i detenuti comuni, in modo da renderne difficile l'individuazione etnica.

A volte sostituendo lastre e referti medici per far trasferire in ospedale i detenuti politici. Fece anche "evadere" un bimbo ebreo di pochi mesi avvolgendolo tra le lenzuola sporche. "Nel gennaio del 1945, a causa di una soffiata - racconta ancora Loddo - giunse dalle SS l'ordine della sua carcerazione sotto l'accusa di collaborazionismo con i partigiani, accusa che comportava la condanna a morte. Ma sfidò a viso aperto il comandante fascista del presidio, invitandolo a produrre anche una sola prova".

"Nel mezzo della feroce battaglia di Torino del 25 aprile 1945 - ricostruisce lo storico - incurante del terribile fuoco incrociato tra partigiani, Brigate Nere e SS, andò personalmente, seduta sul cofano di una macchina e sventolando la bandiera della Croce Rossa, dal capo della provincia per convincerlo a dare l'ordine di liberare tutti i detenuti politici rinchiusi nel carcere, prima che la situazione precipitasse e i nazisti potessero commettere una terribile rappresaglia. Ottenuto l'ordine, tornò indietro in mezzo alla battaglia, per consegnare l'ordine di liberazione dei partigiani, salutata da unanime delirio di gioia. Un esempio per tutti, anche adesso".

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